I napoletani hanno sempre avuto una forte predilezione per i frutti di mare e per le sue numerose produzioni ittiche, cucinate in vari modi; lì dove si è sviluppata la tradizione della conservazione del pesce in salamoia e di salse a base di pesce come il garum, descritte dal gastronomo Apicio nel suo De re coquinaria .
Vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., Apicio è descritto dagli autori antichi come amante dello sfarzo e del lusso e costituisce la principale fonte sulla cucina romana, che ancora riemerge nelle ricette napoletane (zucchini alla scapece, cioè ad usum Apicii) e nella «colatura di alici» prodotta a Cetara, un fiorente centro peschereccio che deve il suo nome alle antiche vasche, cetaria, in cui si praticava la salagione delle alici, attività effettuata ancora oggi.
Qui fin dall’antichità si era sviluppata l’«arte del salzume», o salagione del pescato, esportato in epoca moderna nella vicina Salerno, specie nel periodo della fiera di San Matteo, a fine settembre, ed in altri luoghi, dagli stessi commercianti di pesce salato che possedevano le barche da pesca ed impiegavano capitali in tale attività.
Napoli è stata fondata dai greci soprattutto per la pescosità del suo golfo, cantata nelle Ecloghe piscatorie dal poeta Jacopo Sannazaro. Il poeta descrive una serie variegata di prodotti ittici, cozze ed ostriche a Castel dell’Ovo, ostriche a Mergellina e Miseno, ricci a Mergellina e Nisida, prodotti nel Golfo di Napoli, una città che gli appariva “come un incantato giardino in riva al mare, dove i marinai si dissetavano alle fonti ed i contadini alternavano le reti all’aratro”.
Uno dei luoghi più frequentati dagli amanti delle produzioni ittiche era Santa Lucia, il quartiere dei “luciani”, dove, alla «pietra del pesce», si svolgeva un ricco mercato. Nel quartiere vivevano numerose famiglie di pescatori, spesso abili sommozzatori, che praticavano la pesca di polpi e cefali nelle acque di Castel dell’Ovo con le barchette su cui era montata la lampara e con il «lanzaturo», la fiocina.
Il locus amoenus per la degustazione dei prodotti ittici era sempre Santa Lucia. Nella sua Guida del 1826, Giovan Battista De Ferrari descriveva il borgo come «luogo notabilissimo, tanto per la sua deliziosa posizione sul golfo, … quanto perché nell’estate vi concorrono di sera e di notte … e lungo la … spiaggia si sogliono ergere di dopo pranzo molte botteghe di legno nelle quali si vendono frutti di mare, e pesce squisito».
Nell’Ottocento si dette particolare attenzione alle prelibatezze culinarie, descritte nei particolari da Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, cuoco e letterato, che per le sue ricette usava solo pesce di mare, non quello di acqua dolce, tranne anguille e capitoni che, secondo la tradizione, si consumavano e si consumano ancora oggi, alla vigilia di Natale. Egli consigliava molte ricette per il baccalà, ignorando accuratamente il polipo, che considerava “cibo popolare da consumare per strada”, e proponeva particolari menù da pranzo per i giorni della quaresima.
Una descrizione ancora più dettagliata di questo luogo brulicante di vita, in cui veniva venduta ogni sorta di prodotto ittico, è nella Guida di Erasmo Pistolesi del 1845:
sopra uno spazio di circa trecento passi stanno esposte
delle picciole tavole e su quelle le ostriche e i frutti di mare,
che tanto abbondano su questa spiaggia,
e quei bellissimi testacei sono artificiosamente posti
entro cestelli piani, decorati di musco marino.
Le ostriche del Fusaro stanno dentro secchi pieni di acqua di mare,
e fra tanti testacei deesi onorare il cannolicchio, genere il più venduto,
il tartufo dal guscio bianco, il vongolo dalle valvole rosse,
la patella reale dal guscio madreperla, la spuma marina e l’ostrica rossa.
La fiera testacea è riparata verso il mare da una tela
su cui è scritto il numero e il nome di ogni venditore,
e a ogni banco è sospesa una lanterna, cosicché la molteplicità
produce quasi un aspetto di permanente luminaria.
La cucina napoletana è il prodotto di tradizioni gastronomiche greche, romane e delle successive dominazioni, francese e spagnola, che hanno interessato la città.
Nasce come cucina povera, affiancata da una gastronomia più elaborata della classe aristocratica, nei secoli si è evoluta combinando tradizioni popolari e nobili, in cui i prodotti del mare sono sempre stati protagonisti.
I napoletani hanno sempre avuto una forte predilezione per i frutti di mare e per le sue numerose produzioni ittiche, cucinate in vari modi; lì dove si è sviluppata la tradizione della conservazione del pesce in salamoia e di salse a base di pesce come il garum, descritte dal gastronomo Apicio nel suo De re coquinaria .
Vissuto tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., Apicio è descritto dagli autori antichi come amante dello sfarzo e del lusso e costituisce la principale fonte sulla cucina romana, che ancora riemerge nelle ricette napoletane (zucchini alla scapece, cioè ad usum Apicii) e nella «colatura di alici» prodotta a Cetara, un fiorente centro peschereccio che deve il suo nome alle antiche vasche, cetaria, in cui si praticava la salagione delle alici, attività effettuata ancora oggi.
Qui fin dall’antichità si era sviluppata l’«arte del salzume», o salagione del pescato, esportato in epoca moderna nella vicina Salerno, specie nel periodo della fiera di San Matteo, a fine settembre, ed in altri luoghi, dagli stessi commercianti di pesce salato che possedevano le barche da pesca ed impiegavano capitali in tale attività.
Napoli è stata fondata dai greci soprattutto per la pescosità del suo golfo, cantata nelle Ecloghe piscatorie dal poeta Jacopo Sannazaro. Il poeta descrive una serie variegata di prodotti ittici, cozze ed ostriche a Castel dell’Ovo, ostriche a Mergellina e Miseno, ricci a Mergellina e Nisida, prodotti nel Golfo di Napoli, una città che gli appariva “come un incantato giardino in riva al mare, dove i marinai si dissetavano alle fonti ed i contadini alternavano le reti all’aratro”.
Uno dei luoghi più frequentati dagli amanti delle produzioni ittiche era Santa Lucia, il quartiere dei “luciani”, dove, alla «pietra del pesce», si svolgeva un ricco mercato. Nel quartiere vivevano numerose famiglie di pescatori, spesso abili sommozzatori, che praticavano la pesca di polpi e cefali nelle acque di Castel dell’Ovo con le barchette su cui era montata la lampara e con il «lanzaturo», la fiocina.
Il locus amoenus per la degustazione dei prodotti ittici era sempre Santa Lucia. Nella sua Guida del 1826, Giovan Battista De Ferrari descriveva il borgo come «luogo notabilissimo, tanto per la sua deliziosa posizione sul golfo, … quanto perché nell’estate vi concorrono di sera e di notte … e lungo la … spiaggia si sogliono ergere di dopo pranzo molte botteghe di legno nelle quali si vendono frutti di mare, e pesce squisito».
Nell’Ottocento si dette particolare attenzione alle prelibatezze culinarie, descritte nei particolari da Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, cuoco e letterato, che per le sue ricette usava solo pesce di mare, non quello di acqua dolce, tranne anguille e capitoni che, secondo la tradizione, si consumavano e si consumano ancora oggi, alla vigilia di Natale. Egli consigliava molte ricette per il baccalà, ignorando accuratamente il polipo, che considerava “cibo popolare da consumare per strada”, e proponeva particolari menù da pranzo per i giorni della quaresima.
Una descrizione ancora più dettagliata di questo luogo brulicante di vita, in cui veniva venduta ogni sorta di prodotto ittico, è nella Guida di Erasmo Pistolesi del 1845:
sopra uno spazio di circa trecento passi stanno esposte
delle picciole tavole e su quelle le ostriche e i frutti di mare,
che tanto abbondano su questa spiaggia,
e quei bellissimi testacei sono artificiosamente posti
entro cestelli piani, decorati di musco marino.
Le ostriche del Fusaro stanno dentro secchi pieni di acqua di mare,
e fra tanti testacei deesi onorare il cannolicchio, genere il più venduto,
il tartufo dal guscio bianco, il vongolo dalle valvole rosse,
la patella reale dal guscio madreperla, la spuma marina e l’ostrica rossa.
La fiera testacea è riparata verso il mare da una tela
su cui è scritto il numero e il nome di ogni venditore,
e a ogni banco è sospesa una lanterna, cosicché la molteplicità
produce quasi un aspetto di permanente luminaria.
La cucina napoletana è il prodotto di tradizioni gastronomiche greche, romane e delle successive dominazioni, francese e spagnola, che hanno interessato la città.
Nasce come cucina povera, affiancata da una gastronomia più elaborata della classe aristocratica, nei secoli si è evoluta combinando tradizioni popolari e nobili, in cui i prodotti del mare sono sempre stati protagonisti.